Un maxi schermo diviso in 6 video screen dai colori accesi e cangianti e un numero telefonico fittizio, in sovraimpressione, attivo per chiunque abbia l’esigenza di confessare le proprie fantasie, angosce e debolezze a lei, Kylie Minogue, nei panni di un’invitante call girl televisiva che alterna look aggressivi e sadomaso a parvenze più eleganti e acqua e sapone, disponibile in 6 modalità diverse a seconda di ciò che le si vuole raccontare.
Sono queste le immagini che, nel 1994, accompagnavano visivamente il brano Confide In Me, uscito il 29 agosto di 25 anni fa su CD, musicassetta e vinile da 12 e 7 pollici e ancora oggi ritenuto dalla critica il primo vero capolavoro musicale della piccola principessa del pop.
Scelto come primo singolo dall’album eponimo della diva australiana, Confide In Me sanciva l’esordio di una nuova era per Kylie, una momentanea dipartita dal dance/pop allegro e spensierato a favore di un sound più languido, cupo e adulto. Era l’inizio, per lei, della cosiddetta fase indie, promossa e supportata dalla modesta casa discografica deConstruction, una divisione della Sony/BMG con cui la Minogue aveva firmato un contratto esclusivo nel ’93 dopo aver preso la coraggiosa decisione di abbandonare la vecchia PWL, diventata ormai una gabbia dorata più che una label in cui poter crescere. Era giunto il momento di evolvere musicalmente, di esplorare una nuova dimensione artistica e svelare una femminilità inedita attraverso suoni contemporanei, testi più espliciti e, soprattutto, una voce più matura.
Segni premonitori di questa esigenza si erano già manifestati due anni prima, quando con singoli quali Shocked e Word Is Out (e grazie alla ‘cattiva’ liaison con Michael Hutchence, leader degli INXS) la ragazza aveva cominciato a flirtare con l’arte dell’erotismo, ostentando un approccio ancora troppo acerbo e pudico. Confide In Me, al contrario, incapsulava appieno il cambiamento in atto, era l’emblema di una metamorfosi che inizialmente turbò fans e pubblico medio, abituati entrambi a vedere la Minogue come l’eterna Charlene della soap opera australiana Neighbours che accennava timide movenze sexy cantando e muovendosi al ritmo dei sintetizzatori di Mike Stock, Matt Aitken e Pete Waterman. Ora tutto suonava (e appariva) diverso: abbandonato il trio di padrini storico (a cui sarà sempre rivolto il più sentito e dovuto rispetto), a guidare Kylie nella nuova avventura è il duo britannico dei Brothers In Rhythm, coppia di DJ e produttori composta da Dave Seaman e quel tanto apprezzato Steve Anderson che dal ’94 ad oggi diventerà mentore fisso della cantante, oltre che direttore musicale di ogni sua singola tournée e performance.
Ad esercitare un’imponente influenza sulla creazione di Confide In Me saranno un neonato genere alternativo, conosciuto con il nome di trip hop per via delle sue percussioni cadenzate e sonorità oniriche, il richiamo suggestivo dell’Oriente e, non ultima, la musica orchestrale che darà forma e sostanza all’intro del pezzo: un vero e proprio preambolo, lungo più di un minuto, in cui a scandire le prime note è un evocativo duello tra piano e violino che culla l’orecchio soavemente, fino a quando l’ormai celeberrimo giro di archi (arrangiato dal maestro Will Malone di Unfinished Sympathy dei Massive Attack) non irrompe sulla base palesandosi in tutta la sua struggente, malinconica drammaticità, per poi avvolgere più volte il ritornello, là dove Kylie intona il titolo del brano in falsetto, alla stregua di una Sirena ammaliatrice, e persuade l’ascoltatore a confidarsi. Un’ouverture troppo bella per essere abbreviata e adeguata alla durata media del CD/LP, tanto da spingere sia la diva australiana che il duo dei Brothers In Rhythm a mantenere sul disco la versione completa della traccia, senza tagli: il cosiddetto Master Mix da 5 minuti e 51 secondi. Tuttavia, proprio il nucleo emozionale di quell’intro scatenerà, qualche mese più tardi, le ire di un musicista e autore di Manchester, Owain Barton, talmente certo del fatto che quella sequenza di archi sia grossomodo identica al motivo della sua It’s A Fine Day (1983), interpretata dalla compagna Jane Lancaster, da intentare una causa legale contro la BMG/deConstruction e ottenere, tramite accordo, che il suo nome venga citato nei crediti del pezzo assieme a quello della popstar e dei produttori.
Controversie e accuse di plagio a parte, Confide In Me rende Kylie anche una sorta di pioniera: la parte centrale del brano, un breakdown a metà strada tra chill out, lounge e minuzie sonore dal fascino esotico, costituisce difatti uno dei primi esempi di Balearic Beat usato in ambito mainstream, e dona il giusto tocco di mistero e seduzione a quello spoken bisbigliato (’Stick or twist? The choice is yours, hit or miss? What’s mine is yours’) in cui tanti, all’epoca, vollero scorgere un richiamo al parlato di Madonna in Justify My Love (1990).
Nonostante l’impietoso magazine britannico Smash Hits (fonte unica di notizie e aggiornamenti negli anni in cui Internet era il lusso di pochi) avesse scoraggiato lo stuolo dei fan della Minogue recensendo la canzone in anteprima mondiale e definendola ‘‘weird flutey music to have forty winks to’’ (‘‘stramba musica dai suoni flautati, ideale per un pisolino’’), Confide In Me riuscì a raggiungere e occupare per un mese la prima posizione nella classifica australiana e la #2 in quella del Regno Unito, restando in Top 10 per altre tre settimane.
Di seguito, l’iconico video musicale girato a Los Angeles per il singolo, diretto dal regista scozzese Paul Boyd.
Un commento su “Kylie: 25 anni fa ‘Confide In Me’ e la fase indie”