Ombretti dai colori vivaci, orpelli floreali degni di Frida Kahlo, pelle diafana e abiti a metà strada fra gentildonna del Sudamerica e señorita del vecchio West. Sono queste le vesti e le immagini che accompagnano visivamente Familia, la sesta fatica discografica dell’incantevole Sophie Ellis-Bextor, diva dal fascino innato (e dall’accento marcatamente british), nota al grande pubblico per una discreta pletora di fulgidi esemplari di synth pop puro e genuino quali Murder On The Dancefloor, Get Over You, Catch You, Heartbreak Make Me A Dancer e Bittersweet. Guai però a bollarla come meteora: dopo 16 anni di carriera e quattro figli, per non parlare del periodo underground trascorso nella band Theaudience prima del debutto da solista con Take Me Home, Sophie è ancora fertile e produttiva, non solo in senso biologico. È però cambiata dal punto di vista artistico, e pure parecchio.
Nonostante le apparenze, lei è da sempre una che non le manda a dire quando si tratta di decidere cosa è meglio per sé, una che ha fin dagli esordi voluto vivere la musica come qualcosa da concepire e creare in prima persona (non senza l’aiuto di validi collaboratori, intendiamoci). Celebre è il suo talento come autrice, che dal 2000 a oggi spinge DJ di mezza Europa a spedirle tracce strumentali da trasformare in canzoni, ma altrettanto ammirevole è la scelta, messa in pratica nell’ultimo triennio, di tenersi a debita distanza dalle luci stroboscopiche dei club e dai ritmi incalzanti della dance (lasciando comunque la porta socchiusa) per avventurarsi lungo le sponde più scoscese del pop organico e cantautorale. Complice lo scioglimento del contratto con la Universal/Fascination Records nel 2010, l’esigenza di uscire dal selciato per non rimanere intrappolata nell’ormai limitante status di disco queen è dunque diventata per la star inglese un’occasione di rivalsa nei confronti della critica e dell’omologazione, condivisibile o meno che sia.
Familia, uscito lo scorso 9 settembre, è il secondo capitolo di un viaggio intrapreso dalla Bextor nel 2014, anno in cui la cantante ha ufficialmente proclamato la propria indipendenza discografica pubblicando l’album Wanderlust, primo manifesto di un’evoluzione tuttora in corso. Pur seguendo la scìa tracciata dal predecessore in termini di stile e genere, a divergere in Familia sono le influenze: come precisato infatti nella press release dello scorso agosto, questo nuovo disco rappresenta la sorella ribelle e più estroversa di Wanderlust, che ha abbandonato l’Est europeo per emigrare in Sudamerica, barattando la Vodka per la Tequila e godendo del clima più caldo del Messico. Non poteva esserci metafora più consona e pittoresca per descrivere, al meglio, un album di 11 inediti in cui folk latino, indie pop e sonorità mariachi sposano l’eleganza di quel timbro vocale che caratterizza e rende subito riconoscibile Sophie dai tempi di Groovejet (If This Ain’t Love).
Trainato da un primo singolo, Come With Us, esuberante e radio friendly, nonché perfetto per celebrare il quasi terminato revival della disco music anni ’70, Familia non è LP istantaneo, e tantomeno pretende di esserlo: è un album che bisogna ascoltare più volte per poterne cogliere preziosismi e qualità. Solo così apprezzerete la synthmania anni ’80 di Wild Forever e Death Of Love (a cui si alterna il sound più organico della batteria), il violoncello che impreziosisce il cantato nostalgico di Sophie in Crystallise, il falsetto etereo dell’inciso di Here Comes The Rapture, la tradizione musicale messicana omaggiata in Hush Little Voices e la dinamicità delle melodie di My Puppet Heart.
Noi di PopSoap abbiamo avuto il privilegio di parlare del nuovo progetto con la diretta interessata, e pertanto abbiamo deciso di presentarvi Familia attraverso ciò che Sophie in persona ha raccontato durante la nostra intervista.
Ciao Sophie, è un onore averti ospite su PopSoap. Innanzitutto come stai?
Molto bene, grazie! Mi sento felice, entusiasta.
Ascoltando Familia abbiamo subito colto quello che intendevi quando lo hai descritto come la sorella ribelle di Wanderlust che ha barattato la Vodka per la Tequila nelle lande più soleggiate e calde del Sudamerica: ti va di spiegare ai nostri lettori come mai proprio questo scenario è divenuto il tema portante dell’album?
Credo sia il risultato di una combinazione tra il voler fare qualcosa di diametralmente opposto all’ultimo disco, ambientato in un contesto più invernale, tipico dell’Est europeo, e il fatto che sia io che il mio collaboratore Ed Harcourt (con cui ho scritto questo nuovo album e Wanderlust) abbiamo trascorso le vacanze in America Latina. Lui è stato a Cuba, io in Messico. Abbiamo quindi cominciato a lavorare a questo progetto con il ricordo di quei colori ancora vivido nelle nostre menti.
Sei un’artista indipendente dal 2011, per l’esattezza da quando hai assunto il pieno controllo dei tuoi progetti musicali e hai pubblicato il tuo quarto album Make A Scene attraverso la tua etichetta EBGB’s. Come ti senti ora che sei diventata un indie act a tutti gli effetti e sei quindi più libera di esplorare l’aspetto meno commerciale della musica pop?
In realtà il primo album che ho pubblicato da indipendente è il mio quinto disco, Wanderlust. Make A Scene era nato in collaborazione con la Universal. Wanderlust rappresenta una tappa fondamentale per me, sia per l’approccio più maturo con cui l’ho inciso sia perché ho realizzato un album molto diverso dai precedenti, privo di brani dance e disco, e ho sfidato un po’ me stessa. È stato meraviglioso, sto vivendo la fase più gratificante della mia carriera.
Molte delle tue canzoni più note sono coscritte assieme ad autrici talentuose quali Hannah Robinson e Cathy Dennis e prodotte da nomi di tutto rispetto come Greg Kurstin, Richard Stannard, Gregg Alexander e Matt Rowe. Gli ultimi due album sono invece il frutto di un sodalizio amichevole e duraturo con Ed Harcourt: cosa vi accomuna musicalmente?
Mi è piaciuto molto scrivere brani con le persone che hai nominato, ma ti confesso che ho sempre desiderato lavorare a un intero disco con un solo autore e un unico produttore. Aver trovato qualcuno che sia entrambe le cose è grandioso. Ed, peraltro, è un amico di famiglia, a unirci è quel giusto equilibrio tra affinità e differenze che ci permette di essere costantemente ispirati quando siamo in studio. È una situazione divertente, naturale, anche stimolante. È salutare per l’anima.
A risaltare in Familia sono le melodie vocali, ma anche il fatto che ogni singola traccia sia stata principalmente registrata usando strumenti veri piuttosto che sintetizzatori. Grazie a questi due punti vincenti, canzoni come Crystallise, Here Comes The Rapture, Cassandra e Unrequited svelano una sorta di “dolceamara malinconia” che gran parte dei tuoi fans apprezza tantissimo. È forse dovuta a un particolare stato d’animo in cui ti trovavi durante il processo creativo?
Ho sempre avuto una propensione verso le atmosfere malinconiche, le trovo ricche di sentimento. Mi conquistano ogni volta. Evito tutto ciò che possa risultare troppo mieloso o troppo triste: per me l’area più bella da esplorare è quella grigia che sta nel mezzo. Mi tocca nel profondo.
Come With Us, lo spumeggiante primo singolo tratto da Familia, è stato remixato in chiave disco/house dagli F9 (pseudonimo adottato di recente dai Freemasons per promuovere l’omonima label di James Wiltshire). Che ne pensi di riservare un trattamento simile anche ad altri pezzi contenuti nell’album?
Potrei farlo benissimo. L’ultimo disco è stato anche remixato, e così Wanderlust è diventato Wandermix. Potrei decidere di farlo di nuovo, è carina come idea. James per me è un genio.
Quando ti esibisci spesso vivacizzi la setlist dei tuoi concerti eseguendo delle cover: Sing It Back dei Moloko e Lady (Hear Me Tonight) di Modjo non mancano quasi mai, ma ce ne sono anche alcune che hai registrato in studio per dei progetti paralleli (True Faith dei New Order e Jolene di Dolly Parton, per esempio). Ti piacerebbe rivisitare altri brani dal vivo aggiungendo il cosiddetto ’’Sophie touch’’ che ormai distingue le tue interpretazioni? (Un titolo che ci permettiamo di suggerirti è Can’t Get You Out Of My Head, per la pura curiosità di sentirti cantare un pezzo che, stando a quanto si dice, all’epoca venne offerto prima a te e solo in seguito a Kylie Minogue).
Guarda, ho sempre detto la verità a chiunque me lo chiedesse: non mi hanno mai proposto di incidere Can’t Get You Out Of My Head. La prima volta in cui l’ho sentita è stata alla radio. Canzone stupenda, in ogni caso. Non credo abbia bisogno di una mia rivisitazione. Mi piace interpretare cover che si discostino totalmente dall’originale, quindi credo che sceglierei quella dei New Order.
Cos’altro hai in serbo per la promozione di Familia?
Ho appena pubblicato Crystallise come secondo singolo, poi seguirà Wild Forever. Dopo di che andrò in tour, a febbraio sarò in giro per il Regno Unito. Non vedo l’ora!
Familia è attualmente disponibile su CD e vinile (in versione Standard e Deluxe) e acquistabile su iTunes via EBGB’s/Sony.
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