Un sentimento comune di trepidazione palpitante e un guizzo di brivido che le grandi attese comportano prima dei grandi eventi. Sono queste le percezioni che anticipano ogni volta un concerto di Madonna, e la scorsa settimana hanno avuto nuovamente modo di manifestarsi e scatenare gli animi durante le tre tappe italiane previste dall’acclamatissimo Rebel Heart Tour.
A distanza di ben 25 anni, Torino è stata la città prescelta per accogliere il nuovo spettacolo on the road di Madonna, la bella e composta Torino che in occasione della prima tournée mondiale della cantante (Who’s That Girl Tour) divenne centro del mondo per un indimenticabile show della Regina della musica Pop trasmesso in diretta mondiale dallo stadio comunale a inizio Settembre del 1987.
PopSoap ha assistito al concerto di sabato 21 Novembre, e queste sono le nostre impressioni:
Ore 21:40: Show time!
Le luci del Pala Alpitour si spengono e le emozioni sopra citate si elevano al cubo: sugli schermi viene proiettato un video. Era dai tempi del Reinvention Tour che lo spettacolo non veniva introdotto da un lungo monologo: alcuni estratti vocali tratti dal Secret Project, un astruso cortometraggio girato a fine 2012, volto a contrastare ogni forma di discriminazione, accompagnano i fotogrammi di una Madonna che torna a vestire i panni di Marilyn Monroe, stavolta imprigionata e sporca di sangue, speranzosa di qualcuno che la liberi, mentre on stage comincia a prendere forma uno scenario degno del più alto e pomposo Medioevo nipponico. Un ordinato miscuglio di samurai e templari in marcia riempie ogni angolo del palco principale e del backdrop, mentre dall’alto appare finalmente lei, Madonna Ciccone, serafica, rinchiusa in una gabbia.
L’outfit è quello tipico di un comandante a capo di un esercito, una Giovanna D’Arco postmoderna, vestita di cultura giapponese e pronta a portare avanti la Revolution Of Love di cui si è proclamata portavoce tre anni fa.
Dimmi che non sono brava e sarò strepitosa: è questa la frase attorno a cui ruota Iconic, il numero di apertura del concerto, un motto più autobiografico che mai se si pensa che guida la carriera della cantante dagli esordi, da quando timida e al contempo maliziosa dichiarava di voler conquistare il mondo davanti ai sorrisi beffardi dei giornalisti. La reazione del pubblico è scontata: eccitato, in preda al delirio, come ogni entusiasmo da ierofania prevede.
Benché una buona parte della stampa italiana sia stoica nel puntare l’attenzione sullo scandalo, in questo nuovo tour sono assenti le grandi provocazioni del passato. La parentesi sacrilega è unica, dura poco più di cinque minuti e accompagna Holy Water, un controverso sorso di acqua santa (come il titolo della canzone indica), attinta da un calice pieno fino all’orlo in cui sesso e religione si mescolano indistintamente e al quale la Ciccone ama bere da tempo immemore, ligia come sempre nel voler dimostrare, a proprio modo, la vacua incongruenza dei veti e delle regole imposte dal Cattolicesimo e dalle demonizzazioni tipiche delle religioni patriarcali: è allora così che Madonna e suore in lingerie diventano esperte ballerine di pole dance e si dilettano in rischiose acrobazie attorno a croci di acciaio, estasiando il pubblico con movenze saffiche e con una parodia vivente de L’Ultima Cena di Leonardo, rappresentata in chiave orgiastica, di cui la popstar è cerimoniera.
Dopo tutto, ogni concerto di Madonna è giocato sulla dicotomia, su quella ben calibrata alternanza tra apollineo e dionisiaco, istinto e ragione, e Rebel Heart non è da meno.
La seconda sezione dello spettacolo vede 70’s disco glamour e moda rockabilly fondersi e supportare visivamente grandi classici come Deeper And Deeper e la tanto attesa True Blue, eseguita per la seconda volta in un tour, dopo 28 anni di assenza dalle scalette, in un arrangiamento sapientemente acustico, con tanto di ukulele suonato dalla diretta interessata. Non manca una sorta di trama, incentrata sulla disperata fine di un amore e sulla rinascita che a quest’ultima consegue, un’evoluzione che ha luogo su di un palco semioscurato e spoglio, dove a fare da scena è una scala a chiocciola su cui la cantante e un ballerino simboleggiante una delusione sentimentale salgono e scendono a più riprese, durante uno struggente mash up tra la nuova HeartBreakCity e Love Don’t Live Here Anymore, seguito subito dopo da una Like A Virgin sbarazzina, in cui una Madonna targata 1984 sia nelle mosse che nei toni scanzonati celebra la propria rivincita.
Ad aprire il terzo atto è un remix in stile big room di Living For Love, introdotto da una lunga processione verso il palco principale da parte della Ciccone avvolta in un lunghissimo e suntuoso mantello disegnato dallo stilista Fausto Puglisi e sorretto dalle sue due ballerine giapponesi, ma è riconoscendo la prima strofa de La Isla Bonita che il Pala Alpitour riecheggia all’unisono e viene ammaliato da un arrangiamento più spagnoleggiante di quanto lo sia stato nelle incarnazioni musicali precedenti. A vivacizzare questa section è in un secondo momento la policromia tipica dei ghetti latinoamericani unita alla genialità dei dipinti più gipsy di Frida Kahlo, ispirandosi ai quali Madonna, ballerini e parte della band deliziano gli astanti con un lungo medley di successi anni ’80 (Dress You Up, Into The Groove, Lucky Star), eseguito a suon di maracas e ritmi caraibici. Un atto dello spettacolo abbastanza dinamico, anche dal punto di vista della setlist e dei costumi, in cui la cantante ha variato più volte il canovaccio, scegliendo (su richiesta del pubblico) di interpretare con il solo aiuto del chitarrista Monte Pittman brani come Secret e Ghosttown, durante lo show di Sabato 21 Novembre, e Who’s That Girl e Like A Prayer durante quello di Domenica 22. A chiudere l’atto è la title track dell’ultimo album, con una Ciccone lasciata sola con la sua chitarra sul piccolo palco a forma di cuore posto alla fine della passerella e un rapido susseguirsi di paint digitali disegnati da fans, proiettati sui vidiwall, che ripercorrono in circa quattro minuti trent’anni di camaleontica e indistruttibile carriera.
Una Music reinventata per l’ennesima volta apre l’ultima parte dello show: un inaspettato scorcio anni ’20, su cui colossal quali Chicago e il più recente The Great Gatsby esercitano un ponderoso ascendente. Madonna appare nelle vesti di una scintillante showgirl tipica del periodo, dedita a coreografie che mescolano jazz, charleston e swing e circondata da ballerini che tributano omaggio a grandi icone di quell’epoca come Charlie Chaplin e l’indimenticabile Joséphine Baker, per poi scherzare con il pubblico tra battute e dialoghi a tu per tu con ragazzi presenti nel parterre, subito dopo Material Girl. Ma è a questo punto che subentra una delle performance più emozionanti della serata: un’inedita Madonna interpreta il celebre brano La Vie En Rose di Edith Piaf, in un abile e ben pronunciato francese, ostentando un vibrato perfetto e non più perfettibile che conquista un applauso collettivo e scrosciante da tutti i settori del palazzetto.
Dopo la scelta di un fortunato fan per ciascuna serata da far salire sul palcoscenico durante Unapologetic Bitch, con l’ormai rituale e simbolico dono della banana, ecco poi il ritorno dell’encore, quel finto congedo che da decenni mancava in un concerto di Madonna: sugli schermi campeggia la scritta Bye Bitches!!! e per qualche secondo le luci si spengono lasciando il pubblico dubbioso e spiazzato, almeno fino a quando le prime riconoscibilissime note di Holiday vengono suonate e la location torna a riempirsi di clamore per tutta la durata dell’esibizione, con la superstar che sfoggia la bandiera italiana attorniata dal corpo di ballo al completo e saluta il pubblico volando in alto, laddove tutto era partito un paio di ore prima.
Lontane da pretese filmografiche e da copioni, e più vicine all’estemporaneo, le tappe torinesi del Rebel Heart Tour hanno visto una Madonna coinvolta e partecipe, imperterrita nel sottolineare di essere italiana e nel riservare un amore particolare per i propri connazionali. La voglia e l’amorevole frivolezza con cui Madonna ha (abbondantemente) parlato in italiano ha riportato la mente di ogni singolo spettatore al 1987, a quel concerto così kitsch ma al contempo così influente a livello mediatico e culturale che molti avevano visto dal vivo, altri in diretta televisiva e altri ancora solo in DVD, per questioni anagrafiche, e che aveva elevato la Ciccone a icona mondiale della musica pop.
In Rebel Heart Madonna non interpreta ruoli, questo è il comune accordo: non è più la sanguigna sposa assetata di vendetta del tour precedente. Lo spettacolo appare più intimistico e spontaneo, benché ristretto in cronometrate sequenze, e persino agli occhi del pubblico più prevenuto la Ciccone è apparsa per la prima volta (dopo tanti anni) meno personaggio. Ha intrattenuto e divertito piuttosto che andare semplicemente in scena e raccontare delle storie attraverso la propria musica.
Noi non abbiamo dubbi in merito, allora come adesso: Long live the Queen!
Immagine di copertina: Marco Piraccini