C’è un tempo per i compromessi e per compiacere gli altri, ingannandosi di far del bene anche a se stessi, e un tempo per imparare ad ascoltarsi. Ilaria Porceddu da qualche tempo lo ha capito bene, sia sul piano personale che su quello artistico. Così, dopo anni trascorsi a Roma per motivi di studio e lavoro, ha fatto la valigia ed è tornata nella sua terra, la Sardegna, e ora, proprio quando molti suoi colleghi sfornano le hit da piazzare nelle playlist estive, lei pubblica un gioiellino, Sa Coia, completamente in sardo e lungo oltre 6 minuti. D’altronde Fabrizio De André è nel suo cuore da sempre, ed è abituata ad andare (fieramente) “in direzione ostinata e contraria”. A PopSoap Ilaria Porceddu presenta il brano e parla dei cambiamenti che ha apportato alla propria vita, ma anche del difficile momento che gli artisti stanno vivendo e di come vorrebbe ripartire.
Che valore ha per te la pubblicazione di Sa Coia?
Non era programmata, non era un singolo del mio nuovo disco che sarebbe dovuto uscire, ma è successo tutto per caso: è nato per il MedInArt Festival col direttore artistico Emanuele Contis (che è anche il sassofonista che suona con me nel brano) sul testo di una poesia scritta da una maestra elementare. Questa canzone è diventata parte del mio repertorio live e a gennaio ho fatto un concerto a Cagliari per festeggiare il mio ritorno, l’abbiamo suonata e quando ho ascoltato la regsitrazione del concerto mi sono accorta che era venuta molto bene, per questo ho voluto farla uscire, ma senza nessuna aspettativa. Per me ha un valore molto importante perché questa canzone è un pezzo di cuore, l’emozione di questi giorni è legata al fatto che non sia più solo mia, e spero che gli altri abbiano cura di questa cosa molto intima.
Una sorta di regalo che ti sei fatta e che ora vuoi condividere con il tuo pubblico…
Esatto, non è un singolo… di cosa parliamo? Dura 6 minuti e mezzo, pianoforte e sax, live, però la cosa bella è che sta piacendo molto di più la versione extended che non la radio edit. Vedi che alla fine “in direzione ostinata e contraria” ripaga sempre (ride, ndr)?
Maria Rosaria Spano, autrice della poesia, ti ha dato un parere sul pezzo?
Lo ascoltò 2 anni fa al Festival e la cosa meravigliosa è che venne a ringraziarmi, mi disse che in realtà aveva scritto questa poesia guardando la sorella perché lei ai 40 anni di matrimonio con il marito non ci è arrivata in quanto lui è andato via prima, e questa cosa fu molto dolce.
Nel brano si parla delle varie fasi di un matrimonio, e tu possiamo dire che sei sposata con la musica: pensi che il testo possa descrivere bene anche questa tua relazione?
Sì, alla fine fare musica è come avere un legame con la persona che ami, e ci sono i pro e i contro: penso sia sempre una scelta il voler amare e stare con qualcuno, perché a volte si sconfina nella condanna, nell’obbligo, sia in una relazione d’amore che in quella con la musica nel momento in cui diventa un lavoro. Per molti anni ho pensato di dover fare quello che gli altri mi dicevano che avrei dovuto fare. Mi ero autoconvinta che i miei desideri fossero quelli che mi raccontavano gli altri, poi a 30 anni ho capito che desideravo cose diverse.
Un matrimonio in cui ti vuoi prendere i tuoi spazi quindi?
È un matrimonio in cui la musica sa che deve avere rispetto per me e io per lei. Abbiamo deciso di continuare a stare insieme perché vogliamo stare insieme libere. Libere di essere quello che siamo realmente senza imposizioni.
Il brano è in sardo e tu da qualche tempo sei tornata in Sardegna: quando e perché hai preso questa decisione?
Erano alcuni anni che cambiavo casa spesso perché cominciavo a sentire un’insofferenza sempre più forte, poi mi sono resa conto che l’insofferenza era data non dalla casa ma dalla città. Ho iniziato a preferire stare a casa a guardarmi una serie o leggere un libro invece che uscire nei locali romani quindi mi sono chiesta: ‘Forse hai bisogno di altro?’. Mi ricordo benissimo che ero a Roma, sull’autobus – dove devi calcolare due ore ogni volta che devi arrivare in un posto – sono scoppiata a piangere e ho detto: ‘Ma a me chi me lo fa fare? Se sono felice in Sardegna perché non posso tornarci?’. Roma ti dà quella convinzione che una volta che sei là non la puoi più lasciare, in realtà io sto facendo avanti e indietro e si può fare benissimo.
Una scelta coraggiosa per chi fa musica.
Arrivi a un punto della vita in cui le esigenze di vita cambiano, in cui vuoi fare qualcosa che appaghi te stesso. Quando da Roma sono andata al MedInArt Festival sono arrivata in un paesino del Medio Campidano con un caldo da morire, dentro una casa di terra cruda ho trovato i musicisti che nella veranda facevano le prove per la serata, la sera ci hanno offerto la pecora che sarà stata cucinata dal Natale prima da quanto era morbida, litri di vino, sono finita ubriaca persa e son tornata a casa felice di quella felicità che ti ricorda perché hai deciso di fare questo lavoro. Ecco perché ho deciso che anche la mia vita doveva prendere una direzione che mi portasse un po’ di serenità che non avevo più in una città come Roma.
Scelta coraggiosa ma anche saggia alla luce del lockdown che sarebbe arrivato più avanti. Ti sei sentita più protetta nella tua isola?
Ho avuto un gran culo a stare qui! Credo sarei dovuta andare in terapia dopo il lockdown a Roma. Già viverlo qua è stato difficile, però avevo i miei genitori che passavano sotto la finestra e li salutavo, ti affacci alla finestra e vedi il mare, anche solo uscire di casa e respirare quell’aria mi rigenera, invece nella costrizione di una città gigantesca che si ferma totalmente credo che avrei sofferto molto di più.
Qual è stata la mancanza più grande che hai sofferto in questo periodo?
Più che una mancanza ho vissuto il terrorismo psicologico: non per le notizie che arrivavano, ma l’idea di dover uscire e avere paura di incontrare un poliziotto e sentirmi sbagliata mi ha inquietato parecchio, perché mi è sembrato di vivere in una situazione di controllo che non vorrei sperimentare mai in questa vita. Mi è mancata la mia libertà più delle persone.
A maggio ti sei espressa sulla condizione degli artisti in questa fase così delicata: a un mese di distanza qual è la tua posizione su quella che hai definito ‘categoria invisibile’? Si sta muovendo qualcosa?
Tutti ci hanno detto: ‘Vabeh in questo periodo voi create’. E io come creo se sono costretta a casa e non ho una vita? Da dove tiro fuori ciò che racconto? Non mi viene neanche la voglia… Mi son guardata tutto Harry Potter, un sacco di serie tv e non ho fatto niente, solo nell’ultimo periodo ho iniziato a progettare. Non credo si stia sbloccando qualcosa, c’è una mobilitazione da parte degli addetti al settore, quello sì, e una ricerca di un riconoscimento, ma ora i problemi sono così tanti che, come sempre, gli artisti vengono messi in secondo piano in un’ottica superficiale, perché l’arte accompagna l’emotività, non è roba da poco. Mi dispiace tantissimo perché veramente siamo la categoria degli invisibili, il nostro non viene considerato un lavoro: abbiamo investito soldi, vita, tempo, tutto, non è una cosa che ci è arrivata dal cielo.
Questa estate riuscirai a fare qualche live?
Non lo so, anche perché non ho capito bene che cosa succede, tanti locali stanno chiudendo… Non so se preferisco aspettare che si definisca la situazione, perché anche avvelenarmi per cercare di costruirmi un’estate di concerti se poi è un casino definirli non ha tanto senso.
Pensa allora a come vorresti che fosse il tuo primo concerto post Covid.
Lo farei totalmente in acustico e su una spiaggia, con i cuscinetti distanziati… Ma credo che userò questa estate per lavorare a livello di produzione sul disco nuovo.
A questo proposito a che punto sono i lavori?
Sa Coia non è propriamente l’anticipo del disco, è un anello di congiunzione tra quello che ho fatto fino ad ora, l’essere tornata in Sardegna e il ricominciare (o continuare) da qua. Le canzoni sono scritte, ora bisogna tornare in studio come prima del lockdown, quindi l’anno prossimo se non già in autunno qualcosa uscirà.
Photo credit: Alessandro Congiu