Judith Owen nuovo album

Judith Owen: dal 6 maggio l’album “Somebody’s Child”




Uscirà il 6 maggio su etichetta Twanky Records/Self Somebody’s Child, il nuovo album di Judith Owen anticipato dal singolo Send Me A Line, in rotazione radiofonica da venerdì 29 aprile.

Judith Owen nuovo album
Judith Owen, cover dell’album “Somebody’s Child”

Intensa ed eclettica nel suo stile compositivo e pianistico, Judith Owen ama fondere i più diversi generi musicali per crearne uno tutto suo, complesso e sfaccettato. Somebody’s Child è il miglior esempio di tale versatilità: voce e piano al centro, canzoni che sono come aneddoti di vita, tratteggiati tenendo presente che tutti noi siamo figli di qualcuno, “somebody’s child” appunto. “Di natura – spiega Judith – sono una musicista eclettica. Sono la somma di tutte le influenze musicali che ho assorbito nella mia vita, dall’opera lirica a Frank Sinatra, da Joni Mitchell a Stevie Wonder, e tutto quello che c’è in mezzo”.

Mentre l’acclamato ultimo disco Ebb & Flow (2014) era molto personale, in Somebody’s Child Judith Owen passa dalla fase dell’introspezione a quella dell’osservazione, sempre avvalendosi della crème de la crème dei session men di Los Angeles: il bassista Leland Sklar, il chitarrista Waddy Wachtel e il batterista Russell Kunkel. Al loro fianco, i suoi abituali accompagnatori di base in Inghilterra: il formidabile percussionista Pedro Segundo e la splendida violoncellista Gabriella Swallow, in grado di creare dinamiche inedite e stimolanti.  “Ѐ una cosa molto british questa voglia di mischiare tanti stili diversi. Ѐ classica. Ѐ pop. C’è del jazz. Del rhythm and blues. C’è anche del rock qua e là” osserva Judith, come appare evidente nella malinconica No More goodbyes o nel rock jazzato di We Give In.

Il brano d’apertura, e title track, è incorniciato da un prezioso quartetto d’archi: “Rappresenta il cuore del disco, ne stabilisce il tono come in una dichiarazione d’intenti. Ero a New York, l’inverno scorso, e ho visto questa bella giovane donna, circa al nono mese di gravidanza, a piedi nudi nella neve, vestita solo con un sacco della spazzatura, con la pancia scoperta e malconcia. Stavo attraversando la strada, insieme a tutti gli altri cercando di evitarla, quando ho pensato, “Anche lei è figlia di qualcuno, e se la mia vita fosse stata diversa, quella potrei essere io. O chiunque di noi! Siamo tutti così disumanizzati, e tutto questo disco è incentrato sull’esigenza di riprendere contatto con la nostra umanità, di vedere veramente cosa ci circonda, abbandonando, anche solo per un momento, il nostro costante atteggiamento di negazione”.

Fino a poco tempo fa, l’acuto senso di osservazione di Judith Owen è stato spesso rivolto interiormente: “Ho realizzato ‘Ebb & Flow’ subito dopo la scomparsa di mio padreMolto tempo dopo ho scritto ‘No More Goodbyes’ che parla della cosa più difficile da ammettere per ciascuno di noi, cioè che si può trovare sollievo nel lasciar andare, che si può desiderare che il dolore finisca”. Può sembrare un pensiero triste, ma Judith Owen si affretta ad assicurare che “questo è un disco molto più gioioso e vitale”. 

All’interno c’è anche Mystery, “probabilmente la canzone d’amore più onesta che io abbia mai scritto. L’amore già è difficile trovarlo; il vero mistero è come le persone riescano a restare insieme” ammette Judith“Non è qualcosa che si può pianificare. L’ultimo verso – ‘It takes patience, it takes time, today we might quarrel, tomorrow we’ll be fine (Ci vuole pazienza, ci vuole tempo, oggi possiamo litigare, domani staremo bene)’ – è il nocciolo della questione. L’aspro con il dolce”.

Un’altra caratteristica di Judith Owen è la capacità di rivoltare la più improbabile delle canzoni e farla propria, come ha già fatto con il classico rock dei Deep Purple Smoke On The Water e con l’irresistibile hit dei Mungo Jerry In The Summertime. Questa volta tocca alla languida interpretazione del pezzo dei Roxy Music More Than This, avallato nientemeno che dal suo creatore Bryan Ferry per il quale Judith ha aperto i concerti l’anno scorso. L’artista interiorizza l’emozione di quel brano e la fa rivivere registrandola nello studio londinese di Bryan, suonandola al suo pianoforte.

Per non parlare del suo adattamento scherzoso di Aquarius dal musical rock Hair: Amo giocare con testi semplici e schietti come questo, e metterli in un contesto musicale completamente diverso. Sono una persona seria a cui piace molto ridere. Ne ho bisogno.”

L’album si chiude con l’arioso arrangiamento orchestrale di The rain is gonna fall, che però, contrariamente a quello che sembra, ha un significato molto positivo: sì, pioverà, ma sarà la vita che si rinnova.

Via Ufficio Stampa




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