Daniele Celona presenta “Amantide Atlantide”: «La musica è la mia terapia»

Daniele Celona, cover dell'album "Amantide Atlantide"
Daniele Celona, cover dell’album “Amantide Atlantide”

Il 3 febbraio è uscito Amantide Atlantide (NøeveRecords /Sony Music), il nuovo album di Daniele Celona che arriva a 3 anni di distanza dall’esordio con Fiori e demoni. Il nuovo progetto del cantautore torinese, annunciato ad ottobre in collaborazione con il Milano Film Festival con la pubblicazione del docu-video Sud Ovest firmato da Mauro Talamonti, è stato anticipato a gennaio dal primo singolo La colpa. Amantide Atlantide è un’analisi schietta, bilancio senza retorica, affresco di storie di personaggi fragili, a volte rassegnati, a volte rabbiosi, indifesi o indifendibili, immersi in una società schizzata, composta di rapporti tesi, di maschere da indossare spesso in modo inconsapevole e per questo ancora più imprigionanti. A PopSoap Daniele Celona ha presentato la sua nuova fatica discografica nella quale sono stati coinvolti alcuni colleghi e compagni di vita come i Nadàr Solo (basso, chitarra e batterie in tutte le canzoni del disco) e Levante (voce in Atlantide).

Che cosa si cela dietro il titolo del tuo nuovo disco?
Una sintesi. Atlantide, che come brano è l’implosione del mondo privato, nel titolo del disco è invece metafora della società, dell’ambiente, del contesto italiano e non, posto sull’orlo della scelta tra sviluppo sostenibile e miserrimo interesse di parte. Amantide è il sentimento in senso lato. È amore, relazione con l’altro annegato nell’oggi. Dell’oggi artefice e vittima. Siamo Noi davanti agli ostacoli, sotto una lente di ingrandimento, poco prima che la pelle inizi a bruciare.

Il primo singolo è La colpa, un invito a uscire da una situazione di torpore. Non abbiamo più coraggio di rischiare? Secondo te perché?
È più che altro un invito a non piangersi addosso e a usare l’orgoglio come forza motrice senza farsene accecare. È il caro vecchio tema di quanto il libero arbitrio determini o subisca il destino. Detto questo, il frangente in cui stiamo vivendo non è certo dei più facili. Non mi permetto di dare del codardo a chicchessia. Io non ho una famiglia, quindi posso concedermi di giocare sulla mia pelle e basta. Ad esempio lasciare un lavoro ben retribuito e fare la fame per riuscire a suonare, o mandare a stendere questo o quell’altro senza dovermi preoccupare se quel gesto toglierà il pane di bocca a mio figlio. Insomma non era mia intenzione semplificare, ma porre una luce su uno o più nervi scoperti del nostro quotidiano.

Perché l’hai scelto come singolo apripista?
Il disco è difficilotto. Ci sono brani lunghi anche più di sei minuti e altri con un arrangiamento assai articolato. Le canzoni più accessibili sono proprio La Colpa e Atlantide. Dopo l’anteprima di Sud Ovest, che è in realtà più caratteristica del mio modo di scrivere, abbiamo onestamente pensato di non darci completamente la zappa sui piedi e la scelta è ricaduta su La Colpa. È vero, è un pezzo senza ritornello e il testo è più cattivo di quanto non sembri, ma l’inizio trae volontariamente in inganno e abbiamo giocato su questo.

Il tema “sociale” torna anche in Precarion: vuole essere una riflessione sui modi con cui chi sta ai piani alti prende in giro i giovani? 
Precarion è essenzialmente uno sfogo, ironico, ma amaro. È il paradosso per cui il bene che tutti rimpiangono, la giovinezza, è ciò che in alcuni contesti taglia le gambe alle possibilità di un futuro decente. Qui il focus sulla realtà italiana credo sia più evidente.

In Sotto la collina definisci Torino, la tua città, “stronza e riservata”: come mai? Qual è il tuo rapporto con questa città? 
Amo la mia città. Adesso che sono spesso fuori, mi manca molto. Se malessere c’è stato è riferito ad un passato in cui non riuscivo a trovare un riconoscimento musicale adeguato. Forse avevo troppa fretta. È stato necessario trovare un equilibrio prima interno per potermi esprimere al meglio anche verso gli altri. Torino è una città dalle forti contraddizioni, questo sì. Deve ancora capire se aprirsi di più come città cosmopolita e turistica. Il fermento artistico che si respira è però innegabile.

Vivi a Torino ma hai origini sarde, e alla Sardegna hai dedicato una traccia, Sud Ovest, che non corrisponde all’immagine da cartolina che tutti abbiamo in mente dell’isola. Che cosa non va in quella terra?
Non voleva essere un’immagine negativa. È una terra meravigliosa, ma se pensi che ancora adesso si parla della possibilità di usarla come discarica delle stramaledette scorie nucleari comprendi quanto sia necessario stare sempre in allerta per preservare un bene così prezioso. Il video è un omaggio alla bellezza sarda in toto, e al contempo un monito affinché l’isola venga fruita, contemplata e non usata.

Hai fatto un lavoro di grande ricerca musicale per l’album: che tipo di suono volevi ottenere?
In realtà da questo punto di vista non sono così soddisfatto. Come già per Fiori e Demoni ho dovuto far tutto di corsa e senza troppi mezzi, sopperendo con sbattimento e buona volontà alla mancanza di tempo e denaro. Non ti nascondo che più volte ho avuto il desiderio di buttar tutto alle ortiche. Si tratta semplicemente di capire se le canzoni, i testi, gli arrangiamenti meritino comunque di uscire allo scoperto, di esser portati in giro, demandando alla dimensione live una piena gratificazione. La risposta affermativa a questa domanda più il fatto fondamentale che per la prima volta, da che cerco di fare questo strampalato mestiere, ho una staff a darmi una mano, ha fatto tendere la bilancia decisamente da una parte.

In diversi brani ci sono lunghe parti strumentali, cosa che si presta molto bene alla dimensione live: è una cosa pensata?
I brani sono pensati per il live, ma non è stata una scelta a tavolino. Semplicemente mi è venuto naturale privilegiare di più il divertimento dal vivo, piuttosto che il bene del pezzo in senso stretto o la sua miglior forma canzone.

Tu, Levante, Nadàr Solo, Bianco: ognuno in qualche modo entra nei progetti dell’altro. Vi influenzate a vicenda? A che livello?
Beh, è normale influenzarsi. È importante star dentro un humus creativo in cui ognuno a turno alzi l’asticella della qualità di scrittura. È un misto di affetto e competizione assolutamente salutare, che talvolta ti dà energie, numeri, idee senza una reale ricerca cosciente.

Avete mai pensato di realizzare un disco tutti insieme?
Scatterebbe una mega rissa penso. No dai, scherzi a parte, in questo momento è giusto che ognuno sia concentrato sul proprio progetto e la nostra sia una sinergia più che una fusione. Ci vogliamo bene e ci stimiamo, il resto viene e verrà da sé.

Ho letto che spesso usi la musica come terapia: funziona?
Assolutamente sì. Sono ancora vivo ad esempio. Non alzo le mani contro qualcuno da anni e riesco anche a dormire qualche ora quasi ogni notte. Per come stavo messo è un ottimo risultato.

 

Photo Credit: Ufficio Stampa

Emanuele Corbo

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